I Vasai di Santa Maria


I ricordi degli anziani su S. Maria del Piano risalgono a decine e decine di anni fa.

 

Le botteghe di generi vari erano tre; quattro le osterie: una di Egisto Fabbri, la seconda di Ciotti Alfredo, la terza di Fabbri Augusto e la quarta di Ciotti Giuseppe.

 

La gente quando aveva un po’ di tempo per chiacchierare s’incontrava nelle osterie e la sera nelle stalle.

 

Con quattro soldi, chiamati da noi “la bicicletta” si compravano un cornetto di pane, un’arancia, un mezzo fico e si faceva colazione. La domenica ci si permetteva di comprare la “fusaia” e in autunno qualche castagna: passava un uomo con  un sacchetto sulle spalle e le vendeva già cotte.

 

Le botteghe delle terrecotte erano le più importanti in paese e davano lavoro a più di cento persone.

Appartenevano a Borgognoni Vincenzo detto “Svampa”, a Biagio e a Luigi, che erano tre fratelli, bravissimi artigiani. Un anziana,intervistata, racconta che suo babbo con loro “aveva proprio un rapporto di fratellanza”.  I Borgognoni non ebbero figli machi; Luigi e Vincenzo due femmine per uno, Biagio non aveva preso moglie e così nessuno dei tre potè raccontare i propri segreti a un figlio maschio che continuasse l’attività.

E inoltre a

 

Cerilli Vincenzo detto Pistolon

Barillari, Manzein

Scarponi Angelo, Angiulini de la Lisandra

Guidi Marino, ora Marinacc e ora Sgnòr Mario

Tentoni Francesco, Fighin dla Rosa

Guidi Ottavio, Tavien Giron

Franchetti Apollinare, dla Rosa ad Piula

Ardenti Germano , Zunc

Ginepri Giovanni, dla Sunta dla Cuba

Fantini Giuseppe, Cucù

Casadei Enrico, Richin

Casadei Felice, Pagnòc

Ghirlandi Vittori, Milon

Cerilli Ubaldo e Pietro, Brosc

 

In queste botteghe c’erano anche degli operai:

 

Pignatta Enrico

Cagnoli

Fabbri Lino

Tombini P.Paolo

Tombini P.Paolo

Tombini Andrea

Ugolini Tonino

Filippi Fernando.

 

Delle persone dette il più simpatico era Cucù perché faceva gli scherzi a tutti, anche ai bambini; quando passavano dei vecchietti gli sporcava la faccia con le mani “colorate” dalla terra. Faceva gli scherzi anche Tombini Pietro, detto Tufein,  specie quando passava un uomo di Taverna gli urlava sempre dietro “Casetta, “serga” perche si diceva che avesse rubato in chiesa e con i soldi si fosse comprato una giacca.

Augusto Fabbri li faceva alle suore perché, quando veniva qualche forestiero a comprare quelle che venivano cosi chiamate e servivano per scaldare il letto, diceva che le più buone e le meno care e le vendevano in una casa in fondo al paese e questi andavano sempre a bussare alla porta del convento.

 

Sicuramente non fra gli operai ma fra i proprietari c’era un po’ di “rusghin”, gelosia invidia.

 

I mercati dove si vendevano le terrecotte erano a:

San Marino

Mercatino Marecchia (ora Novafeltria)

S.Arcangelo

Rimini

Riccione

Mondaino

Cattolica.

 

Cucù, Bròsc, Milòn “i aveva e caval” per spostarsi da un mercato all’altro, altri avevano un camioncino. Vendevano molto anche in paese perché la gente non era andata “giù, giù” verso la riviera, nei paesi si era ancora un “ròbie” (tanti).

Molti venivano a comprare a S. Maria  dalle colline e dai monti vicini.

 

Gli oggetti più richiesti nelle botteghe erano:

la termina, pgnata per e’ brod

e’ scudlot, per il formaggio

la suora, per riscaldare il letto

e’ scolabrod,

e’ scolapasta

la padella per l’arrosto e per il sangue di maiale

la pègnla, per il latte

e’cadinoun, per lavare le varie erbe

l’olla, per marinare le olive, per conservare l’olio

la fiasca del vino e dell’aceto

la pgnata, e pgnat e pgnaten

l’urinél, vaso da notte

la brocca, contenitore d’acqua

e’cadèn, per lavarsi le mani e la faccia

e’piat

e piatlon, di portata insalatiera

la teggia per cuocere la piada

la bugia, il candeliere

il boccale, contenitore d’acqua

i boccalini

i bicchieri di coccio

l’orcio per l’acqua alla sorgente

La tazza

La pentola per i fagioli

E’scaldèin, lo scaldino per i piedi e le mani

E piat sotto e’ scudlòt, lo scodellotto

E’ fugòn, braciere

 

Degli oggetti in terracotta gli intervistati conoscono bene l’orcio:”non si capisce” tutti dicono, quante volte in un giorno una donna doveva andare alla fontana a prendere l’acqua. Ne portavano due alla volta, qualcuna addirittura tre, uno anche sulla testa.

Martini Domenica detta la Baiocca faceva “una Ghirlandina” con la stoffa, vi appoggiava l’orcio che non si muoveva “d’un filo”. Conoscono bene anche i tegami di terracotta; con tegame piccolo si faceva il soffritto: ci si metteva un po’ di lardo, della carne, un po’ di maiale, pepe,sale,conserva e si faceva bollire piano piano e per molto tempo; adesso cosi non si fa più perche con la spranga si riusciva ad accomodarli. Per non farli spaccare dal fuoco li si teneva a bagno per due o tre giorni in un grande mastello prima di usarli, poi si riempivano d’acqua e si mettevano a bollire piano piano ; cosi facendo non se ne rompeva nessuno. Qualcuno adopera ancora i tegami di trenta anni fa pagati allora 600 lire. Questi servivano anche per la cottura del pesce, visto che qualche volta passavano in paese una donna a cavallo chiamata “Miletta” a vendere saraghina, sardoni, frittura.

 

                                                                                           DALLA GRECIA?

 

Lungo la provinciale che costeggia il Conca, si vede, di tanto in tanto un negozietto che espone sul marciapiede i suoi prodotti in terracotta. Quello del vasaio è un mestiere che si tramanda nella valle da secoli da padre in figlio. Le argille del fiume e le piccole cave ferrose, hanno fornito il materiale che questi artigiani vivificavano in arte. Il mestiere del vasaio l’avevano ereditario probabilmente da una popolazione emigrata dal Lazio e chi era stabilita,lungo quel fiume da loro chiamato Crustumium, in quella magnifica radura che è il Piano di San Pietro in Cottis (Valle del conca)

Cosi è stato chiamato nel medioevo, per l’enorme quantità di reperti fittili che affiorano sul terreno dopo ogni aratura.

 

Il popolo dei Crustumeri emigrò, sovrapponendosi pacificamente agli Umbri, accolto con onore come si conviene a chi detiene un alto grado di civiltà di chiara matrice greca e si una sana operosità.

 

Ancor oggi, per tradizione antica, la valle del Tevere, del Metauro e del Conca, risentono il passaggio o le permanenza di questa tribù Crustumina.

Il solco naturale del Tevere fu dunque la via lungo la quale si perpetuano le squisite forme greche ed etrusche delle terrecotte e delle ceramiche.

 

Crustumerium da cui di originerà il nostro Crustumium, non lontano dalla ben nota Veio, era una città sabina fondata dai profughi micenei.

Proprio in quelle terra, ad Epidauro, acquistai un piccolo boccale in terracotta, che , al vederlo, Casadei, il nostro vasaio più legato alla tradizione attribuì alla produzione, ugualmente antica, della Valle del Conca. Anche i colori erano gli stessi, solo apposti in senso contrario. Una  tradizione dunque che affondale sue radici nella favolosa terra di Omero.

 

                                                         IL VASAIO

                                                         (E’ vaser)

 

Il materiale che usiamo per fare i vasi è “la gènga” una specie di tufo che matura col sole e con l’acqua. Noi lo raschiamo con una zappa.

E’ creta pura con qualche venatura di ferro. Una volta raschiata se ne fanno dei mucchi. D’inverno, il gelo fa lo spessore della gènga molto più pesante perché la cuoce ed è una terra che viene buonissima, fina.

Le venature di ferro adesso darebbero fastidio ma quella volta noi la portavamo nella bottega con la carriola, poi posata sopra un banco di legno tre metri e di 50 cm. Di spessore, ne facevamo un’altezza di 20 cm. Di questa terra e con una verga di ferro da cinque chili si tagliava come il salame avanti e indietro.

A forza di battere si allungava e si allargava e allora con una stecca si facevano due tagli, si tirava su e, tutta allargata, si tagliava di qua e di là e si ricominciava a battere perciò, il sasso, la radice, insomma quello che c’era, veniva triturato e la terra purificata, filtrata. Dopo questo trattamento, con la terra si facevano “ dei gonfi “ che mettevamo su una panca. Se erano ancora un pò morbidi li mettevamo ad asciugare su un muro di scagliola.

La quantità di terra da lavorare andava, secondo l’articolo, dalle dimensioni di un’arancia a quelle di un grosso pallone.

Una volta messa sul tornio si cominciava a buttare e si tirava su la base.

La ruota si faceva girare col piede, così la forza centrifuga permetteva alla terra di stare in equilibrio. Una volta fatto, il vaso andava secato.

Prima si metteva fuori, all’aria purchè non ci fosse il sole se no si spaccava, poi sopra il forno. Questa operazione era molto lenta e richiedeva, a seconda dall’articolo,da uno a dodici giorni.

Prima di fare un oggetto dovevamo sempre tener presente il fatto che la terra si ritira; da noi, per esempio, va dal 3,4 % fino al 10%.

 

Col tornio ai piedi si potevano fare circa 300 boccaletti al giorno, ma farli non era niente perché dopo andava messo il manico, poi andava dato il bagno, poi andava scritto, poi verniciato, poi andava dato il colore, poi andava messo nel forno, quindi pulito e imballato.

 

Per quanto riguarda il colore quando i pezzi erano mezzi asciutti (bazòti) gli davamo il bianco di caolino, terra di Vicenza che arriva in pani a punto da Vicenza.

C’era una bottega che lo teneva e aveva anche il piombo era quella di  Bucci in piazza, era quella di Bucci Oreste detto Ristein.

Quando invece il vaso era asciutto gli si dava il giallo a metà, che poi diventava lucido con l’aiuto del piombo. Però prima bisognava fare un trattamento, perché se si metteva il piombo puro sul vaso e poi lo si introduceva nel forno, questo colava.

Allora si prendevano 5 chili di vernice di piombo e si mischiava, adesso lo posso dire anche se è una specie di segreto, con due chili e mezzo di triplo, una terra impalpabile come la povere che tiene fermo il minio per la fusione perché a 930-940 gradi il piombo bolle e viene vetrificato.

 

Il piombo veniva da La Spezia e da Genova dal colorificio Bònacca.

Era pericoloso usarlo; a me ne hanno trovato il 90% nel sangue e mi hanno tolto un rene. Sono stato 27 giorni a Parma dove pero non mi sono voluto far operare, ho preferito Rimini. Non posso bere vino, ma sto bene, non sento niente.

Ho anche l’asma per stare sempre ha contatto con il forno a legna.

Ricordo il giorno in cui ci sono stato davanti circa 14 ore per buttare su legna di continuo. Ho fatto la cottura anche se avevo una gran febbre e da li ho preso la bronchite asmatica. Ho il 70% d’invalidità.

I colori adesso sono già pronti ma quella volta li facevamo noi.

Avevamo dei mulini fatti in muratura, il fondo era a schiena d’asino come “ pozzo della morte “ e nel mezzo c’era un perno di ferro, sopra ci mettevamo un pezzo di cotica ( cudga de baghin ) di maiale e poi giravamo; la cotica sostituiva i cuscinetti a sfera che non c’erano nel girare, una sasso a forma di mezzaluna schiacciava insieme il piombo, la scagliola che era come una specie di semola e il cemento mescolata con l’acqua; si otteneva così un colore fino fino. Il nero non c’era, allora si andava nel fiume Conca e si prendevano dei sassetti neri chiari, si mettevano nel forno a cuocere insieme alla roba; a contatto dell’area si sbriciolavano come la calcina.

Allora si mettevano nel pestello, noi l’avevamo in legno, qualcuno di sasso; con la testa del vergone si “menava” poi si “stacciavano”, si passava coi passini da latte e facevamo il nero.

 

Il verde invece era nato per caso. Un giorno sono venuti a dare il solfatto alle viti che avevamo intorno a casa e alcune gocce sono cadute sui cocci che erano li sotto e abbiamo visto che veniva il verde.

Oppure si poteva ottenere dai fili di rame, quelli della luce: si mettevano a cuocere nel forno, se ne ottenevano scaglie che poi si battevano nel pestello.

Il marrone si otteneva con il manganese mischiato al minio e quindi si poteva fare più o meno carico, a occhio. Il solfato lo compravamo dall’ Aurelia, da Bucci detto Zachi. Con questi colori si facevano quattro o cinque puntini con il pennello ( la stella9 e in mezzo un puntino nero. Il piombo lo abbiamo lavorata sempre senza guanti; mi ricordo che quando andavamo a mangiare, la tovaglia si macchiava tutto di rosso e i fazzoletti quando ci soffiavamo il naso.

 

Dopo colorati i vasi passavano nel forno che da pochi gradi arrivava fino ai 940 gradi. Col forno a legna questi massimi si potevano anche superare ma era pericoloso perché la roba si poteva bruciare e diventava scura, color terra, si ritirava e si deformava.

Poi si facevano raffreddare adagio adagio per circa 1 giorno.

Quando avevamo i forni a nafta, mi ricordo che usavamo degli stracci per tirare giù i pezzi perché erano caldissimi; se ne tirava giù uno alla volta.

Se ne poteva trovare qualcuno bucato perché, essendo uno sull’altro nel forno, il contatto con la vernice che fondeva poteva causare questo inconveniente; per evitarlo mettevamo della cenere o del gesso fra un vaso e l’altro.

 

Adesso fanno i signori perché la ruota è elettrica e il forno è a nafta o a gas e una volta caricato si può andare al bar a bere una birra, invece quella volta se si andava via magari per un bisogno si doveva far presto perché la legna andava messa su in continuazione, adesso si lamentano ma sono fortunati.

Noi tutti sudati, al lavoro ultimato dovevamo tirare giù il fuoco per fare la carbonella; si beveva un bicchiere di vino ci si asciugava il sudore e poi magari dopo un’ora si ricominciava per mettere a posto la roba.

 

Questo lavoro lo faceva già mio nonno detto Giamba e poi mio babbo, Casadei Enrico detto il Pàgnòc. Io sono un artigiano quello di bassa quota insomma ma mio nonno era un artista, ha avuto anche una medaglia d’argento con il diploma da Parigi per una botte di legno con una fiasca.

Era un tipo fatto a modo suo e aveva il vizio di non lavorare finche non aveva finito tutti i soldi. Mi dicevano i Fantini che una volta mio nonno e un altro vasaio si sono sfidati per vedere chi faceva il pezzo più grosso.

Prima ha cominciato l’altro e ha fatto un vaso grande.

Quando secondo lui era finito, mio nonno l’ha fatto crescere ancora di quattro dita che è una cosa quasi impossibile su un pezzo già fatto da un altro, ci vuole proprio la virtù, l’arte.

 

Una volta c’erano nove fabbriche a S. Maria del Piano e lavoravamo più di adesso che siamo rimasti soli. Quelle di maggior prestigio erano Ghirlandi, Cerilli, Fantini, Tentoni, Guidi vicino al cimitero e la nostra. Poi c’erano tre vasai alla Villa: Pignatta, Cagnoli e Vandi e altri due a Montescudo. Si facevano diverse cose : orci, boccali, suore, scaldini e pignatte da fagioli. Noi eravamo in società con Ghirlandi e Fantini e coi motocarri (i furgòn) portavamo a vendere 3000, 4000 pignatte da fuoco che le vecchie usavano anche per il latte oppure  “i fèva e brulè” ( facevano il vino caldo) “e drenta i bagneva e pen” ( e dentro bagnavano il pane).

Quella volta la pentola di terra resisteva al fuoco perché aveva la base stretta e andava sul camino, invece sul gas si rompe più facilmente.

A quei tempi si accomodavano anche, si cucivano con la spranga e “sé mulinèl” ( una specie di trapano a mano) si facevano i buchi.

 

Facevamo anche le olle per le olive; le industrie alimentari di Cesena ce le ordinavano per mettere le uova sotto calce, per conservare i pomodori e per tenere i peperoni sott’olio.

 

Si facevano anche le terrine per il brodo e mi ricordo che una colta ce le pagavano col grano: due o tre terrine piene di grano equivalevano a una terrina con coperchio. Poi facevano anche tazze, cuccume e scolabrodo. Erano richiesti anche orci per l’acqua dal grossista Rossi di Morciano, catinoni per lavare i piatti, forme da formaggio perché quella volta tutti avevano le pecore o le mucche.

 

Dopo la guerra è venuta l’Arrigoni di Misano Mare a ordinare le olle per la salsa di pomodoro; lavoravamo tutti giorno e notte compresa la domenica anche se eravamo fidanzati. Sopra però la conserva faceva un po’ di muffa perché, calando le olle non rimanevano proprio piene.

Abbiamo lavorato un anno due poi è arrivata la latta.

 

La merce ci portava in un deposito che avevamo a Cesena da dove poi veniva smistata ai vari negozi. Tutti i vasai, tranne noi, avevano il cavallo perché oltre che per i mercati veniva usato dai nostri vecchi per spigare e per il freno.

La nostra merce invece partiva con il carro del mugnaio Ristìn d’Buraschi; erano diversi fratelli che mandavano avanti un mulino e per il loro lavoro avevano un carro col mulo che faceva servizio anche per gli altri.

Il viaggio bastava per una paio di mesi.

 

Mio babbo invece andava a vendere al mercato di Cattolica la domenica mattina.

Partiva verso le tre, le quattro del mattino per essere là alle nove.

 

Nella bottega eravamo in tre a lavorare piu un operaio o due fissi.

C’erano poi quelli della Villa che venivano a giornata quando si aveva bisogno; due giorni da noi, due giorni da Ghirlandi e facevano tante ore. Pignatta Enrico, uno di questi, una volta è stato fermato dai Carabinieri perché il carro con cui andava a vendere non aveva la luce “Come ti chiami?” “Pignatta” “Dove vai?” “A vendere le pignatte” “Pignatta, pignatte, pignattaio, vai a vendere pignatte a Montescudo!”

Mi ricordo che una volta questo vecchio è venuto un venerdi, è stato tutto il giorno, la notte e tutto il sabato.

Dopo il fronte ci ha dato la vita il turismo, ma adesso c’è un pò di crisi perché la roba è troppo cara. Quando abbiamo comprato il forno a nafta, la nafta costava 19,20 lire, adesso costa 450, 460; un bocca letto che vendevo a 50 lire, adesso lo devo vendere a 500 600 lire; chi lo rivende vuol guadagnare più del doppio quindi alla fine va a 500, 600 lire; chi lo rivende vuol guadagnare più del doppio quindi alla fine va a 1500, 1600 lire. Adesso un orcio costa 10.000 lire, un portaombrelli 20.000, 30.000 lire ed è delicato, allora se ne compra uno di plastica che costa meno, non si rompe e dura di più.

 

Io ho sempre lavorato, anche la domenica, non ho mai avuto del tempo libero e anche adesso, nonostante l’invalidità, lavoro sempre.

Noi guadagnamo, perché in famiglia, all’infuori del gatto, lavoriamo senza contare le ore. Mio figlio Flavio d’estate fa l’autista e non vuole lavorare più di sei ore mezzo; lui il sabato non vorrebbe lavorare ma se lavoro io deve lavorare anche lui se vogliamo restare tutti uniti e mangiare.

 

I giovani vengono a vedere ma quando hanno provato a lavorare una settimana non ne vogliono più sapere perche dicono che è troppo duro.

 

Dopo noi non ci sarà più nessuno. Gli altri hanno cambiato lavoro, comprano crudo e poi pitturano e vendono, così guadagnano di più. Io non faccio così perché ognuno ha la sua natura e io non sono adatto a vendere, preferisco fabbricare, bisogna essere nati per fare certe cose.



Mio babbo invece andava a vendere al mercato di Cattolica la domenica mattina.

Partiva verso le tre, le quattro del mattino per essere là alle nove.

 

Nella bottega eravamo in tre a lavorare piu un operaio o due fissi.

C’erano poi quelli della Villa che venivano a giornata quando si aveva bisogno; due giorni da noi, due giorni da Ghirlandi e facevano tante ore. Pignatta Enrico, uno di questi, una volta è stato fermato dai Carabinieri perché il carro con cui andava a vendere non aveva la luce “Come ti chiami?” “Pignatta” “Dove vai?” “A vendere le pignatte” “Pignatta, pignatte, pignattaio, vai a vendere pignatte a Montescudo!”

Mi ricordo che una volta questo vecchio è venuto un venerdi, è stato tutto il giorno, la notte e tutto il sabato.

Dopo il fronte ci ha dato la vita il turismo, ma adesso c’è un pò di crisi perché la roba è troppo cara. Quando abbiamo comprato il forno a nafta, la nafta costava 19,20 lire, adesso costa 450, 460; un bocca letto che vendevo a 50 lire, adesso lo devo vendere a 500 600 lire; chi lo rivende vuol guadagnare più del doppio quindi alla fine va a 500, 600 lire; chi lo rivende vuol guadagnare più del doppio quindi alla fine va a 1500, 1600 lire. Adesso un orcio costa 10.000 lire, un portaombrelli 20.000, 30.000 lire ed è delicato, allora se ne compra uno di plastica che costa meno, non si rompe e dura di più.

 

Io ho sempre lavorato, anche la domenica, non ho mai avuto del tempo libero e anche adesso, nonostante l’invalidità, lavoro sempre.

Noi guadagnamo, perché in famiglia, all’infuori del gatto, lavoriamo senza contare le ore. Mio figlio Flavio d’estate fa l’autista e non vuole lavorare più di sei ore mezzo; lui il sabato non vorrebbe lavorare ma se lavoro io deve lavorare anche lui se vogliamo restare tutti uniti e mangiare.

 

I giovani vengono a vedere ma quando hanno provato a lavorare una settimana non ne vogliono più sapere perche dicono che è troppo duro.

 

Dopo noi non ci sarà più nessuno. Gli altri hanno cambiato lavoro, comprano crudo e poi pitturano e vendono, così guadagnano di più. Io non faccio così perché ognuno ha la sua natura e io non sono adatto a vendere, preferisco fabbricare, bisogna essere nati per fare certe cose.